«Nicola amico fraterno e carissimo, ti unisco la corrispondenza di questi giorni con Eugenio (tienila riservata). Spero che ti risollevi dalle ormai per me insopportabili (anche se dolorose per alcun amici che stanno soffrendo la fame…) divagazioni di giornalisti e faccendieri vari travestiti, con loro personale fortuna ,da teatranti. Sono articoli indegni che aiutano ancora di più i travestiti ed illudono i giovani (se cene sono ancora) di poter trovar spazi tra i … contrjrbuti pubblici (di questo ormai si tratterà nel futuro…). Ti abbraccio Egidio.
Ti unisco anch3 la lettera di E[ugenio] B[arba] a Gregorio altro teatrante smarrito in questi tempi terribili». <sic.>
«Holstebro, 27 aprile 2020
Caro Gregorio, in questo momento non ho nessun messaggio da inviare né so trovare parole di incoraggiamento. È tempo di rimanere in silenzio e lasciare che la gestazione prepari il futuro che esigerà tutte la nostra imprudenza, come Federico García Lorca chiamava il grano di follia del poeta. Mi domando se non sia salutare per il teatro che la pandemia sfoltisca le piante incapaci di sopravvivere. Non dovremmo dimenticare la storia degli attori con la loro tenace lotta contro i pregiudizi, il potere, lo scherno, la peste e soprattutto la miseria.
In Europa, gli ultimi settant’anni senza guerra hanno creato strane abitudini. È stata un’epoca in cui, per pura inerzia e per compromessi politici, il teatro ufficiale o considerato artisticamente valido, ha ricevuto riconoscimenti e sovvenzioni. Ma tu e io apparteniamo alla cultura del Terzo Teatro, quella dei gruppi, degli orfani in cerca di antenati, di diseredati che piantano radici nel cielo. Non abbiamo niente in comune con le categorie e le realtà dei teatri ufficiali o di sperimentazione.
Ci siamo abituati a mendicare, a fingere gratitudine per le briciole ricevute e a crederci importanti per gli altri. Eppure sappiamo bene che la vera e unica forza del teatro è la selvaggia necessità di chi lo fa, e la sua ostinazione a non lasciarsi addomesticare.
Può darsi che la pandemia sia un dono degli dei e corrisponda allo sconvolgimento che rappresentò la fotografia per i pittori, e il film per i teatranti all’inizio del 20° secolo, con la conseguente scoperta di inimmaginate funzioni e espressioni artistiche. Può darsi che la pandemia sia il presagio di un ritorno all’umiltà, all’essenza e alle potenzialità interiori del nostro mestiere.
Ho una sola certezza: il futuro del teatro non è la tecnologia, ma l’incontro di due individui feriti, solitari, ribelli. L’abbraccio di un’energia attiva e un’energia ricettiva.
Nessuno ci ha obbligato a scegliere il teatro. Noi che siamo spintonati da questa necessità dobbiamo rimboccarci le maniche e dissodare il giardino che nessuno ci può togliere. Qui crescono il verme che ci rode dentro, la fame di conoscenza, i fantasmi che bisbigliano all’orecchio, la voglia di vivere con rigore la finzione di essere libero, la capacità di trovare persone che siano stimolate dal nostro agire. Dissodare, giorno dopo giorno, al di fuori delle categorie accettate e dei criteri riconosciuti. Anche se il teatro che facciamo è l’urlo di una bestia evirata o il gorgoglio del garrotato.
Un caro abbraccio e buon lavoro.
Eugenio».
«Carissimo Eugenio ho appena letto la tua lettera a Gregorio, straordinaria, intensa, così ricca di dolore eppure di speranza.
Riflessione che è al tempo stesso testamento perché sorga un teatro significante e del significato, ma che va ben oltre il teatro e la nostra vagante cultura e spinge a riflettere sui “i fantasmi che bisbigliano all’orecchio”.
Per me abbiamo un mondo misterioso. I virus ci hanno svegliato dall’entusiasmo delle illusioni. Potremo salire al cielo, ma la terra sarà sempre un peso troppo grande per come abbiamo gestito noi stessi e la terra stessa.
Resto ammirato dai tuoi pensieri e penso che forse io, di una generazione che ha tanto sofferto guerra e dopoguerra, posso capire le possenti spire che avvolgono il tuo animo così luminoso.
Ti abbraccio
Egidio».
«Caro Egidio sono toccato da questa condivisione di pensieri e virus interiori che appartengono alla nostra generazione. Un abbraccio Eugenio».
«Caro Egidio
le tue parole mi hanno toccato, è stato bello sentirti vicino.
Noi due apparteniamo alle generazioni che hanno conosciuto la lotta di classe e la lotta per il pane quotidiano. Essere in quarantena con la credenza piena, la televisione a colori e il telefonino a portata di mano, non è certo una scuola di vita. Ma anche le generazioni giovani se la caveranno, in fondo l’umanità, pur essendo cieca per istinto, ha saputo andare lontano. La domanda quanto terreno c’è davanti ad essa.
Un fortissimo abbraccio.
Eugenio».
«Eugenio carissimo, Ti ho seguito ieri sera su youtube ed ho ammirato la tua sconfinata giovinezza di idee e presagi. La mia generazione (mai dimenticare che sono stato un tuo “anziano” e che tocco 86 anni) e la tua generazione hanno vissuto più vite, anche facendo le arti ed i mestieri più diversi (penso ad Ernesto o a mio fratello Mario che, poliomelitico nella epidemia anni ’50 si costruì una vita faticosa e dolorosa divenendo un storico romano di valore europeo, quando morì dalle Università di mezza Europa mi giunsero messaggi partecipi). Ieri sera le tue parole sommesse e, tanto più sommesse come mosse da un vento non sopito di ricordi lontani e dolorosi e veri, tanto più forti, vibranti emozioni di vita. Eugenio siamo stati e siamo testimoni di tempi strani e sconvolgenti e Tu anche interprete di straordinarie creazioni che intravedevano visioni che oggi si concretizzano. Gli anni futuri ci diranno se avremo ancora “O sole mio” (questa semplice canzone napoletana: risentila mi pare ancora oggi viva!) o se la scienza, che ha volato tanto in alto, toccato la luna e soltanto sfiorato la terra ed i suoi … virus, ci salverà. Ti abbraccio forte con l’ammirazione di sempre grazie delle emozioni che dai.
Egidio».